Per quel giorno non riuscimmo a sapere altro, molti
di noi furono interrogati durante la giornata, altri, come me, lo
sarebbero state l’indomani.
Quella notte, ebbi inconsueti incubi. La mattina
dopo arrivai puntuale. Prima di entrare aspettai le colleghe
dell’ufficio. Avevo paura. Finalmente arrivarono, insieme entrammo
in procura.
I titoli del giornale locale erano a caratteri
cubitali: delitto in procura.
Di solito era la procura che indagava sugli omicidi
altrui, adesso si erano invertite le parti, toccava alla procura
indagare su se stessa. Il procuratore era fuori di testa, urlava e si
agitava più del solito. Il viso paonazzo esprimeva tutta la rabbia
per quello che era successo.
Se non avesse risolto il caso in brevissimo tempo,
ci avrebbe rimesso la faccia e non solo quella. L’espressione
paciosa e benevola era sparita, avevamo davanti un’altra persona
che rompeva l’anima a tutti, non solo ai suoi stretti
collaboratori. La procura era presa d’assalto da giornalisti locali
e giunti anche dai vicini capoluoghi.
L’ufficio della vittima era sigillato. Fuori dalla
porta, ognuno di noi, aveva portato un fiore. Personalmente portai un
cero, l’accesi e recitai una preghiera per la sua anima. Nessuno di
noi aveva il coraggio di parlare. Eravamo sconvolte dall’accaduto.
Ci domandavamo chi era in realtà Selene, e perché l’avevano
uccisa. Pensai al breve colloquio avvenuto il giorno prima. Era
felice. Aveva confidato di aver conosciuto un uomo meraviglioso,
presto sarebbero partiti insieme per una vacanza. Non l’avevo mai
vista così esuberante, gesticolava in maniera appariscente, com’era
suo solito fare, quando era allegra. Mi pentii di non aver chiesto
qualcosa in più, avrei potuto essere più utile alle indagini.
Passando per il corridoio udii il commento acido e cattivo di una
collega:
“C’era da
aspettarselo, faceva una vita troppa libertina, ecco cosa succede,
quando ci si comporta da puttana.”
Era davvero troppo, nessun rispetto per una persona
estinta. Anche se, anch’io, a volte, non ero stata troppo benevola
nei suoi confronti, adesso, però, mi dispiaceva per lei.
Quando ritornai a casa, si risvegliò la mia anima
di poliziotta, per la verità arrugginita da anni di lavoro
d’ufficio, avevo anche smesso d’indossare la divisa, e mi
ricordai che qualche giorno prima era venuto a cercarla un signore
alto, distinto, l’avevo incrociato lungo il corridoio, solo dopo mi
ricordai che era un mio vecchio compagno di scuola.
L’indomani avrei riferito il nome al procuratore:
Alberto Motta, quell’antipatico compagno di classe con le orecchie
a sventola, che però aveva fascino da vendere, tutti a scuola
spasimavano per lui, tranne la sottoscritta. Forse era solo per non
far vedere quanto mi piacesse, e quante poche speranze potessi avere,
visto i chili in più, eterna persecuzione della mia vita, e i
brufoli che avevano deciso di mettere le tende sul mio viso e, per
fortuna, almeno quelli avevano sbaraccato.
Andai a letto, cercando di non pensare al delitto,
mi addormentai subito, non avevo dubbi in proposito, le due cose che
mi riuscivano meglio erano: mangiare e dormire.
Nel cuore della notte mi svegliai di soprassalto, mi
venne in mente una grossa litigata con Selene, avevamo discusso per
una sciocchezza, però lo scambio di battute era stato al veleno, e,
mi ricordai di aver detto proprio:
“Te la farò pagare,
prima o poi”.
Oddio, e, se qualcuno avesse riferito questa frase?
Magari mi ritrovavo indagata. Giuro, l’avevo detto in un momento di
rabbia, poi era inteso in ambito lavorativo. Non ho il coraggio di
uccidere nemmeno uno scarafaggio, figurarsi una persona. Sicuramente,
qualche serpe velenosa delle mie colleghe lo avrà riferito, chissà
in che modo. Forse era meglio andare a cercare subito Alberto Motta,
poi sarei andata ad informare il magistrato. Cercai subito sulla
rubrica telefonica il suo indirizzo, per fortuna lo trovai, viveva
ancora in città. La mattina successiva, via fax, feci richiesta di
ferie, trovando la scusa che si era rotta la lavatrice e avevo la
casa allagata.
Così alle sette del mattino mi accampai con l’auto
sotto la casa d’Alberto. Lo vidi uscire, aveva una valigia che mise
nel bagagliaio della macchina e partì a tutto razzo. Con vero
intuito poliziesco, grazie ai tanti telefilm visti, capì primo che
nascondeva qualcosa, secondo che stava scappando e terzo che era
stato, sicuramente, lui a commettere l'omicidio. Senza pensarci un
attimo, decisi di seguirlo. Dovevo scoprire dove era diretto. Per un
attimo, mi balenò in testa il pensiero che solo un’idiota come me,
poteva pensare di mettersi a fare la detective solitaria, indossare
la divisa e lavorare in procura non significava che dovessi agire da
sola, e, se mi succedeva qualcosa? Prevalse la curiosità, poi, dopo
tutti i polizieschi visti in tv, sapevo come non farmi notare che lo
stavo inseguendo, o almeno ci speravo.
Lo pedinai per almeno un’ora. Prese l’autostrada
e qui fu dura, con la mia cinquecento vecchia era davvero un’impresa
superare i cento chilometri, riuscì comunque a seguirlo, schivando
autocarri e auto lanciate a velocità pazzesche, pensai:
“Ma i limiti di velocità li rispetto solo io ?”
“Ma i limiti di velocità li rispetto solo io ?”
Alberto Motta si fermò ad un autogrill, dove
l’aspettava un tipo strano, dalla corporatura robusta e con curiosi
tatuaggi sulle braccia, dall'accento sembrava una persona dell’est,
non capì bene quello che dicevano, ma intuì che era una richiesta
di denaro. Se nel mio cervello avesse funzionato almeno un neurone,
avrei telefonato subito ai colleghi della polizia locale. Invece
niente. Usci dall’autogrill e capii che la mossa fatta era stata
sbagliata, molto sbagliata. Il mio caro ex compagno di scuola mi
aveva riconosciuto, con fare da perfetto killer mi aveva afferrato
con forza e trascinata verso l’auto.
Buttò la mia borsa di “Dolce & Gabbana” nel
bidone della spazzatura, con quello che l’avevo pagata stavo per
piangere, poi mi ricordai che la mia vita era in pericolo più della
borsa, mi legò le mani e strappò un pezzo di nastro adesivo con cui
mi tappò la bocca. Il primo che fosse riuscito ad impedire alla mia
bocca di parlare. I miei colleghi lo avrebbero ringraziato per
questo, e, spero davvero solo per questo. Così, con le mani legate,
chiusa nel bagagliaio potevo ascoltare i discorsi dei due. Ad
ucciderla era stato proprio lui, Alberto. Al suo amico dell’est
cominciò a spiattellare ciò che aveva commesso, “Non mi restava
altro da fare. Ero andato da lei, doveva soltanto mettermi una firma
e cedermi l'appartamento che poi avrei venduto per darti i soldi.
Invece ha iniziato a fare storie, spiegandomi che era stanca di darmi
sempre soldi per il mio maledetto vizio del gioco, non poteva vendere
anche l'appartamento”. “Poi, aggiunse, che tanto ero solo un
fratellastro, e quindi non aveva nessun obbligo nei miei riguardi”.
“Così, accecato dalla rabbia, ho impugnato il coltello che avevo
portato con me, volevo solo intimidirla, ma quella frase mi ha
colpito al cuore, così le ho tagliato la gola, con un colpo solo,
avevo tanta rabbia dentro di me. Si è accasciata al suolo,
lentamente, mentre mi guardava con lo sguardo misto tra lo stupore ed
il dolore, io proprio io, suo fratello, le ho tolto la vita.”
“Adesso non mi resta altro da fare che scappare, arriveranno da me.
Non ci vorrà molto. Dovrai aiutarmi a sbarazzarmi di questa
zitellona impicciona.”.
Quella parola mi seccò alquanto, sferrai un calcio contro la parete dell'auto, non urlai dal dolore, perché avevo la bocca tappata, sicuramente mi ero rotta qualche dito del piede nell’assestare quel calcio. Pensai con orrore a quale tipo di soppressione andavo incontro. Un colpo di pistola? Strangolata? Accoltellata? Oddio tutte le ipotesi, mi facevano rabbrividire. Non sopportavo il dolore, potevano darmi un valium? Già l’ultima richiesta del condannato a morte:
“ Scusi, signor
killer, mi da una pasticca di sonnifero? Non vorrei soffrire troppo.”
Stupida, stupida, stupida, perché mi ero ficcata in quel casino? Non
avevo altro da fare questa mattina. Accidenti, mi tocca dare ragione
a Brunetta: sono una fannullona. Una fannullona stupida e pettegola
che non si fa i cavoli suoi. Fra un po’ sarei stata un’ex
fannullona deceduta.
Sperando che qualcuno sarebbe venuto a salvarmi dal
pasticcio in cui mi ero ritrovata, mi appellai a tutti i santi
conosciuti, promisi di fare il cammino a piedi fino a Santiago di
Compostela, e soprattutto di smettere di mangiare dolci per tutta la
vita. Per favore, però, non lasciatemi morire.
Vero, sono una zitellona, quasi quarantenne, che
mangia come un elefante e parla ininterrottamente perforando le
orecchie dei miseri colleghi che sventuratamente dividono l’ufficio
con me, ma non mi sembrano peccati tanto gravi. Gesù aiutami. Poi
avevo già programmato la crociera, la prima della mia vita con
un’amica, masochista, che aveva deciso di avventurarsi con me.
Avevo già cominciato a dire le prime preghiere,
quando udii in lontananza un suono melodico, panacea alle mie
orecchie: le sirene della polizia. In breve fummo raggiunti e
bloccati. Alberto ed il suo usuraio arrestati. Sembrava di essere
stata proiettata all’interno di un telefilm, Miami Vice, o simili.
Schiere di volanti della polizia e dei carabinieri, avevano
circondato l’auto d’Alberto Motta nell’autogrill. Mi
liberarono, e, dopo aver fatto solo in tempo a vedere decine di
lampeggianti, svenni tra le braccia di uno splendido poliziotto
brizzolato. Giuro, non ho fatto apposta! Così finì, sotto choc, al
pronto soccorso. Adesso non ricordo più se per il terrore
dell’avventura trascorsa, o, per l’infinito verde degli occhi del
poliziotto. So solo che la camera dell’ospedale, in cui ero
ricoverata, traboccava di colleghi, giornalisti, il procuratore in
persona e…Lui: occhi verdi.
Naturalmente, devo ringraziare quella serpe di
Simona, che ha riferito, prontamente, della mia litigata in versione
“a-momenti-le-tagliava-la-gola”. Il procuratore aveva
predisposto, quindi, di farmi pedinare, visto anche l’inconsueta ed
improvvisa richiesta di ferie, ed era stato un bene, altrimenti,
adesso non sarei qui a raccontare la mia avventura.
Dimenticavo: domani sera esco con lui, Giuseppe, il
poliziotto dagli occhi verdi.
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