Questo è un mio breve racconto che è stato pubblicato in un numero della rivista Confidenze nel 2013
Primo
maggio 1973
Ci sono giorni nella nostra vita a cui
non dedichiamo la giusta attenzione. Pensiamo che ogni giorno possa
essere uguale ad un altro e lo viviamo distrattamente, salvo poi, col
passare degli anni, cercare di ricordarlo per attingervi più
dettagli possibili. Piccoli frammenti nel puzzle della nostra vita.
Cerchiamo parole o immagini, ormai sfocate, nella fragile memoria.
Vorresti tornare indietro nel tempo ed assaporare, attimo dopo
attimo, il tuo passato perchè il rimpianto ti assale stringendosi
attorno alla gola, come il cappio di una corda attorno al collo
dell’impiccato, impedendoti di respirare e vivere la tua vita
reale.
Allora vorresti essere il
regista del tuo film e manovrare la moviola della cinepresa della tua
vita:
avanti,
indietro,
fermarla,
andare al rallentatore,
accelerare,
poi ancora avanti….
…. Mio padre ha sempre lavorato tanto, non ricordo
un giorno in cui sia venuto a casa prima del solito per giocare con
noi, mai. Faceva il falegname, non aveva orari, si recava nella sua
bottega tutti i giorni, compresa la domenica, e le festività di
Natale e Pasqua. Sempre. C’era, però, un giorno in cui si
concedeva il lusso di stare in casa: il primo maggio, la festa dei
lavoratori. Per noi ragazzi era una festa nel vero senso della
parola, potevamo trascorrere un intera giornata con nostro padre, che
gioia ! Cominciavano dal giorno prima ad essere agitati, non stavamo
più dalla pelle. Sapevamo dove saremmo andati, ma ugualmente ci
chiedevamo tutte le volte.
“Oh, Anna, secondo
te, dove ci porta in gita il papà quest’anno”?
Mi chiedeva Vito il mio
fratello maggiore.
“Vorrei tanto
andare dalla zia Caterina, in campagna, pensi che ci poterà lì”?
“Non lo so, perché
non vuoi andare al mare come gli altri anni, non ti piace il mare?”
“Boh, certo, però
mi piacerebbe cambiare”.
Rispose Vito; mentre
Giacomo, nostro fratello più piccolo stava zitto, ci guardava
continuando a sguainare la spada in aria, immerso nel suo fantastico
gioco di lotta contro i pirati.
Quel primo maggio mi alzai presto per
aiutare mia madre ad allestire il pranzo, cucinare gli arancini, la
frittata per farcire i panini e infine gli: “Spingi”, un dolce
tipicamente natalizio, pratico da trasportare e da mangiare
all’aperto.
Così verso le dieci era
tutto pronto per andare a fare la scampagnata al mare, o pic nic,
come si direbbe oggi. La spiaggia non era molto distante, forse
cinquecento metri, ma con tutto quello che ci portavamo al seguito
era necessario andarci in auto. Salimmo tutti sulla cinquecento,
padre, madre, fratelli e nonna. Ognuno di noi teneva sul grembo
qualcosa, chi il tegame con gli arancini, chi il telo da mettere come
una tenda, chi i bastoni…
Come riuscivamo ad
entrare in quella macchinina con tutto il bagaglio appresso è sempre
stato un mistero, adesso sorrido, ma, allora, era un vero
divertimento. Arrivati in spiaggia mio padre si affrettò a montare
quattro bastoni sulla sabbia per legarvi i quattro angoli della
tenda, coloratissima, cucita da mia madre, così potevamo ripararci
dal sole. Mia madre dispose per terra la tovaglia ed i piatti per poi
riunirci a mangiare. Sembravamo una vera squadra di beduini. A quei
tempi era così, non si andava al ristorante, ci si accampava sulla
spiaggia e si consumava il menù preparato a casa.
Mentre mia madre e mia
nonna apparecchiavano, noi ragazzi ne approfittammo per giocare.
Mio fratello Vito, il più
grande, si spogliò urlando a mia madre:
“Ma’ vado a
raccogliere un po’ di ricci così facciamo colazione che ho fame”.
Senza nemmeno attendere
la risposta si tuffò e dopo un po’ arrivò con i ricci, con
atteggiamento enfatico, da vero pescatore, li consegnò a mia madre
che seduta sullo sgabello tirò fuori dalla tasca del grembiule una
forbice e cominciò a tagliare un piccolo tassello nel riccio, poi
prese il limone e spruzzò qualche goccia all’interno :
“Così togliamo i
microbi, si pulisce e lo puoi mangiare senza problemi”.
Ripeté.
Era la colazione più
buona del mondo: ricci appena pescati e pane fresco. Mmm, sento
ancora il sapore del mare sulle labbra. Io ero un po’ schizzinosa,
non mangiavo i ricci tendoli in mano:
“E se poi mi pungo?
No, mi fa male me lo metti nel piatto”?
Chiesi a mia madre che,
con santa pazienza, mi accontentò, svuotando il contenuto del riccio
in un piattino.
Dopo aver mangiato i
ricci corremmo sulla spiaggia a giocare a pallone, e, anche se i miei
fratelli non mi volevano perché ero una femmina, ero irremovibile,
mi piazzavo nell’immaginaria porta e mi autoproclamavo portiere.
Intanto, lentamente, la
spiaggia cominciò a popolarsi d’altre famiglie che, come noi,
passavano la giornata allegramente al mare.
Finalmente arrivò il
momento del pranzo. Mia madre ci chiamò a squarciagola.
Arrivavamo correndo
facendo alzare la sabbia e mia nonna spazientita urlò che eravamo
dei “picciriddi” dispettosi e senza creanza. Mia madre con aria
bonaria rispose:
“Lasciali
divertire, sono bambini devono muoversi”.
Sbuffando mia nonna
ripeté la solita frase:
“Ai miei tempi non
era così, i bambini portavano rispetto ai grandi”.
Riuniti tutti intorno a
cerchio, per terra, si diede inizio al pranzo.
“Prima io”.
Insistette,
fastidiosamente, Giacomo, il più piccolo, era il despota della
famiglia, ma grazie al suo faccino simpatico e paffuto le vinceva
sempre tutte.
“Veramente tocca
prima alla nonna, lei è la più grande”,
Disse mia madre, ma lui
prontamente ribatté:
“Io sono il più
piccolo devo crescere, la nonna è già grossa abbastanza”
Tutti scoppiarono a
ridere, tranne mia nonna che picchiò subito una sberla sulla testa
del mio fratellino, gridandogli :
“ Brutto
screanzato, come ti permetti”.
E noi in coro:
“Ai miei tempi non
era così”,
e giù a ridere a
crepapelle.
“Diventerete
vecchi anche voi, poi vediamo se vi piacerà essere presi in giro”.
Finalmente dopo tutte
queste scaramucce, allungai la mano per prendere il mio arancino di
riso. Ricordo ancora oggi il sapore degli arancini modellati da mia
madre, avevano tutti la stessa forma e dimensione, sembravano fatti
con le formine, invece, erano le sue abili mani a conferire questa
uguale uniformità, inoltre avevano una doratura perfetta, croccante
fuori e con un cuore morbido di ragù con carne e piselli.
Così buoni non li ho più
assaggiati.
Ho provato tante volte a
ripetere la sua ricetta, ma il sapore non è uguale, forse perché ha
perso il sapore della spensieratezza……
Dopo aver mangiato gli
arancini, si passava ai panini con la frittata e per finire il dolce:
gli “spingi”, ovvero, palline fatte con l’impasto di farina con
il lievito, fritte nell’olio e passati nello zucchero aromatizzato
con la cannella.
Che buoni!
Ne mangiavamo a sazietà,
finché le nostre pance mettevano fuori la bandiera bianca e
dichiaravano di non riuscire più ad ingoiare nulla.
È stato proprio al termine del dolce
che mio padre ci ha zittiti e ha detto:
“Vi devo comunicare
una bella notizia, il prossimo mese partiamo, ci trasferiamo al
nord!”
“Davvero? Dove
andiamo?
Chiese mio fratello con
la bocca ancora aperta per lo stupore.
“Andiamo a Mantova”
“È tanto lontano,
lontano?”
S’informò mio fratello
Giacomo
“Si”.
Rispose mia madre con
aria tranquilla e rassicurante.
Sapeva già tutto,
pensai, e da molto tempo.
“ C'è il mare a
Mantova”?
Chiesi timidamente.
“No, c’è il
lago mi hanno detto”
Rispose mio padre
“Dopo mangiamo
anche i ricci allora”?
“ Perché ce ne
andiamo”
Si affrettò a domandare
Giacomo
“Non ti piace più,
papà, stare al nostro paese”?
“Io non voglio
andarmene”
Aggiunse Vito tutto d’un
fiato
“Sto bene qua ho
tutti gli amici, che ci vado a fare al nord”
Le domande erano davvero
incalzanti, e, mio padre non aveva il tempo di rispondere.
“Basta adesso”
Rispose a voce alta mio
padre.
“ Vi siete
dimenticati che comando io, e si fa quello che decido senza storie e
pianti inutili”.
Segui un silenzio strano.
Non eravamo abituati al
silenzio, la nostra era una famiglia allegra, dove si rideva e
scherzava, sempre, ma non quel giorno.
Anche se eravamo piccoli
capimmo che era una notizia importante che avrebbe apportato dei
notevoli cambiamenti nella nostra vita, anche se ignoravamo quali.
Mio padre ci guardò con
uno sguardo che sembrava dire: non mi chiedere altro, per me è un
dolore grande quanto il vostro, le vostre domande mi fanno male.
Pensate che io sia felice di andarmene? No, non lo sono, ma lo faccio
per voi per sottrarvi a questa vita di stenti e rinunce. Sogno un
futuro diverso, voglio darvelo o almeno spero.
Era il primo maggio del
1973.
Siamo partiti un mese
dopo in treno.
Non ho più mangiato
ricci.
E i miei arancini non
hanno il sapore buono del mio paese.
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