martedì 26 aprile 2016

Amarcord

Donne e uomini del web buongiorno
tutti freschi e riposati dal lungo week end o siete abbacchiati dalla grigliatona di ieri?
Io sono sulla seconda ipotesi.

Oggi ripubblico un mio racconto, una sorta di Amarcod della mia vita:


Primo maggio 1973


Ci sono giorni nella nostra vita a cui non dedichiamo la giusta attenzione. Pensiamo che ogni giorno possa essere uguale ad un altro e lo viviamo distrattamente, salvo poi, col passare degli anni, cercare di ricordarlo per attingervi più dettagli possibili. Piccoli frammenti nel puzzle della nostra vita. Cerchiamo parole o immagini, ormai sfocate, nella fragile memoria. Vorresti tornare indietro nel tempo ed assaporare, attimo dopo attimo, il tuo passato perchè il rimpianto ti assale stringendosi attorno alla gola, come il cappio di una corda attorno al collo dell’impiccato, impedendoti di respirare e vivere la tua vita reale.
Allora vorresti essere il regista del tuo film e manovrare la moviola della cinepresa della tua vita:
avanti,
indietro,
fermarla,
andare al rallentatore,
accelerare,
poi ancora avanti….


…. Mio padre ha sempre lavorato tanto, non ricordo un giorno in cui sia venuto a casa prima del solito per giocare con noi, mai. Faceva il falegname, non aveva orari, si recava nella sua bottega tutti i giorni, compresa la domenica, e le festività di Natale e Pasqua. Sempre. C’era, però, un giorno in cui si concedeva il lusso di stare in casa: il primo maggio, la festa dei lavoratori. Per noi ragazzi era una festa nel vero senso della parola, potevamo trascorrere un intera giornata con nostro padre, che gioia ! Cominciavano dal giorno prima ad essere agitati, non stavamo più dalla pelle. Sapevamo dove saremmo andati, ma ugualmente ci chiedevamo tutte le volte.
“Oh, Anna, secondo te, dove ci porta in gita il papà quest’anno”?
Mi chiedeva Vito il mio fratello maggiore.
“Vorrei tanto andare dalla zia Caterina, in campagna, pensi che ci poterà lì”?
“Non lo so, perché non vuoi andare al mare come gli altri anni, non ti piace il mare?”
“Boh, certo, però mi piacerebbe cambiare”.
Rispose Vito; mentre Giacomo, nostro fratello più piccolo stava zitto, ci guardava continuando a sguainare la spada in aria, immerso nel suo fantastico gioco di lotta contro i pirati.

Quel primo maggio mi alzai presto per aiutare mia madre ad allestire il pranzo, cucinare gli arancini, la frittata per farcire i panini e infine gli: “Spingi”, un dolce tipicamente natalizio, pratico da trasportare e da mangiare all’aperto.
Così verso le dieci era tutto pronto per andare a fare la scampagnata al mare, o pic nic, come si direbbe oggi. La spiaggia non era molto distante, forse cinquecento metri, ma con tutto quello che ci portavamo al seguito era necessario andarci in auto. Salimmo tutti sulla cinquecento, padre, madre, fratelli e nonna. Ognuno di noi teneva sul grembo qualcosa, chi il tegame con gli arancini, chi il telo da mettere come una tenda, chi i bastoni…
Come riuscivamo ad entrare in quella macchinina con tutto il bagaglio appresso è sempre stato un mistero, adesso sorrido, ma, allora, era un vero divertimento. Arrivati in spiaggia mio padre si affrettò a montare quattro bastoni sulla sabbia per legarvi i quattro angoli della tenda, coloratissima, cucita da mia madre, così potevamo ripararci dal sole. Mia madre dispose per terra la tovaglia ed i piatti per poi riunirci a mangiare. Sembravamo una vera squadra di beduini. A quei tempi era così, non si andava al ristorante, ci si accampava sulla spiaggia e si consumava il menù preparato a casa.

Mentre mia madre e mia nonna apparecchiavano, noi ragazzi ne approfittammo per giocare.
Mio fratello Vito, il più grande, si spogliò urlando a mia madre:
“Ma’ vado a raccogliere un po’ di ricci così facciamo colazione che ho fame”.
Senza nemmeno attendere la risposta si tuffò e dopo un po’ arrivò con i ricci, con atteggiamento enfatico, da vero pescatore, li consegnò a mia madre che seduta sullo sgabello tirò fuori dalla tasca del grembiule una forbice e cominciò a tagliare un piccolo tassello nel riccio, poi prese il limone e spruzzò qualche goccia all’interno :
“Così togliamo i microbi, si pulisce e lo puoi mangiare senza problemi”.
Ripeté.
Era la colazione più buona del mondo: ricci appena pescati e pane fresco. Mmm, sento ancora il sapore del mare sulle labbra. Io ero un po’ schizzinosa, non mangiavo i ricci tendoli in mano:
“E se poi mi pungo? No, mi fa male me lo metti nel piatto”?
Chiesi a mia madre che, con santa pazienza, mi accontentò, svuotando il contenuto del riccio in un piattino.
Dopo aver mangiato i ricci corremmo sulla spiaggia a giocare a pallone, e, anche se i miei fratelli non mi volevano perché ero una femmina, ero irremovibile, mi piazzavo nell’immaginaria porta e mi autoproclamavo portiere.

Intanto, lentamente, la spiaggia cominciò a popolarsi d’altre famiglie che, come noi, passavano la giornata allegramente al mare.

Finalmente arrivò il momento del pranzo. Mia madre ci chiamò a squarciagola.
Arrivavamo correndo facendo alzare la sabbia e mia nonna spazientita urlò che eravamo dei “picciriddi” dispettosi e senza creanza. Mia madre con aria bonaria rispose:
“Lasciali divertire, sono bambini devono muoversi”.

Sbuffando mia nonna ripeté la solita frase:
“Ai miei tempi non era così, i bambini portavano rispetto ai grandi”.
Riuniti tutti intorno a cerchio, per terra, si diede inizio al pranzo.
“Prima io”.
Insistette, fastidiosamente, Giacomo, il più piccolo, era il despota della famiglia, ma grazie al suo faccino simpatico e paffuto le vinceva sempre tutte.
“Veramente tocca prima alla nonna, lei è la più grande”,
Disse mia madre, ma lui prontamente ribatté:
“Io sono il più piccolo devo crescere, la nonna è già grossa abbastanza”
Tutti scoppiarono a ridere, tranne mia nonna che picchiò subito una sberla sulla testa del mio fratellino, gridandogli :
“ Brutto screanzato, come ti permetti”.
E noi in coro:
“Ai miei tempi non era così”,
e giù a ridere a crepapelle.
“Diventerete vecchi anche voi, poi vediamo se vi piacerà essere presi in giro”.

Finalmente dopo tutte queste scaramucce, allungai la mano per prendere il mio arancino di riso. Ricordo ancora oggi il sapore degli arancini modellati da mia madre, avevano tutti la stessa forma e dimensione, sembravano fatti con le formine, invece, erano le sue abili mani a conferire questa uguale uniformità, inoltre avevano una doratura perfetta, croccante fuori e con un cuore morbido di ragù con carne e piselli.

Così buoni non li ho più assaggiati.

Ho provato tante volte a ripetere la sua ricetta, ma il sapore non è uguale, forse perché ha perso il sapore della spensieratezza……

Dopo aver mangiato gli arancini, si passava ai panini con la frittata e per finire il dolce: gli “spingi”, ovvero, palline fatte con l’impasto di farina con il lievito, fritte nell’olio e passati nello zucchero aromatizzato con la cannella.
Che buoni!
Ne mangiavamo a sazietà, finché le nostre pance mettevano fuori la bandiera bianca e dichiaravano di non riuscire più ad ingoiare nulla.

È stato proprio al termine del dolce che mio padre ci ha zittiti e ha detto:
“Vi devo comunicare una bella notizia, il prossimo mese partiamo, ci trasferiamo al nord!”
“Davvero? Dove andiamo?
Chiese mio fratello con la bocca ancora aperta per lo stupore.
“Andiamo a Mantova”
“È tanto lontano, lontano?”
S’informò mio fratello Giacomo
“Si”.
Rispose mia madre con aria tranquilla e rassicurante.

Sapeva già tutto, pensai, e da molto tempo.
“ C'è il mare a Mantova”?
Chiesi timidamente.
“No, c’è il lago mi hanno detto”
Rispose mio padre
“Dopo mangiamo anche i ricci allora”?
“ Perché ce ne andiamo”
Si affrettò a domandare Giacomo
“Non ti piace più, papà, stare al nostro paese”?
“Io non voglio andarmene”
Aggiunse Vito tutto d’un fiato
“Sto bene qua ho tutti gli amici, che ci vado a fare al nord”

Le domande erano davvero incalzanti, e, mio padre non aveva il tempo di rispondere.
“Basta adesso”
Rispose a voce alta mio padre.
“ Vi siete dimenticati che comando io, e si fa quello che decido senza storie e pianti inutili”.


Segui un silenzio strano.


Non eravamo abituati al silenzio, la nostra era una famiglia allegra, dove si rideva e scherzava, sempre, ma non quel giorno.

Anche se eravamo piccoli capimmo che era una notizia importante che avrebbe apportato dei notevoli cambiamenti nella nostra vita, anche se ignoravamo quali.

Mio padre ci guardò con uno sguardo che sembrava dire: non mi chiedere altro, per me è un dolore grande quanto il vostro, le vostre domande mi fanno male. Pensate che io sia felice di andarmene? No, non lo sono, ma lo faccio per voi per sottrarvi a questa vita di stenti e rinunce. Sogno un futuro diverso, voglio darvelo o almeno spero.

Era il primo maggio del 1973.
Siamo partiti un mese dopo in treno.

Non ho più mangiato ricci.
E i miei arancini non hanno il sapore buono del mio paese.


Ferlisi Maria Lucia

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Lettrice accanita, scrittrice irregolare, gestisco un blog, una pagina ed un gruppo sempre con lo stesso nome: La Lettrice di carta. Amo i personaggi femminili e maschili tormentati, quelli che hanno un passato duro da raccontare, ma da buona lettrice non disdegno altri generi letterari. Non credo che possa esserci un libro brutto, ogni romanzo troverà sempre il suo lettore a cui la storia piacerà. Il mio romanzo preferito: Storia di una capinera di G. Verga.