mercoledì 22 gennaio 2020

Fine pena: ora di Elvio Fassone

Fine pena: ora
di 
Elvio Fassone
recensione di 
Maria Lucia Ferlisi

L’autore  Elvio Fassone, presidente della Corte d’Assise, è stato incaricato di dirigere il maxi processo contro la mafia catanese, che per motivi diversi si svolgerà a Torino,in una aula creata apposta per i vari imputati, 242, un bunker, superprotetto con una gabbia all’interno che conterrà i vari imputati di volta in volta che verranno chiamati a deporre. Arriva anche lui Salvatore il boss emergente, che tutti gli imputati stimano, onorano e ne hanno un reverente timore. Quando entra nella gabbia occupa il posto in fondo, per guardare e osservare. Pur se distanti si stabilisce da subito un contatto tra il giudice e il giovane capo mafia.
Salvatore è un uomo, ha già ucciso, sa dare ordini, sa farsi rispettare. Fin da piccolo conosceva il suo destino, era nato nel bronx di Catania, era stato cacciato da tutte le scuole, ed aveva cominciato con piccoli incarichi fino ad arrivare al primo omicidio..poi la vita mafiosa va in crescendo e a soli 25 anni è un boss, riverito e temuto. Nei due anni del processo  il Presidente della Corte d’Assise  stabilisce un rapporto di rispetto reciproco, tratta Salvatore da uomo non da mafioso, lo rispetta e il giovane boss  ammira quest’uomo e forse anche di più, quasi  una sorta di elevazione a padre, quel padre che avrebbe voluto, ma il caso della vita ha destinato diversamente. Salvatore stesso dirà: «Se io nascevo dove è nato suo figlio, magari facevo l’avvocato». Una dichiarazione amorevole, non solo una dichiarazione sulla fatalità della vita. 
Il processo termina con l’imputazione dell’ergastolo, che Salvatore accetta perché:
“Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare.”
Finito il processo il giudice Fassone sente di dover continuare il contatto con quel ragazzo che è nato nel luogo sbagliato e scrive d’impeto una lettera accompagnata da un libro Siddharta, non immagina che il “gatto selvatico” gli risponderà, forse no, lui gli ha inflitto l’ergastolo, morirà rinchiuso in quella gabbia carceraria. Invece Salvatore risponde e per ben 26 anni i due si scriveranno.


Un romanzo non facile,  il giudice vuole evidenziare quanto sia duro infliggere una pena a vita a una persona, e se quest’uomo  vuole riscattarsi, non ha alternative se non la morte, non quella naturale, ma il suicidio come unico modo per riacquistare la libertà.
Non è facile pensare che ad un omicidio, anche efferato, si possa concedere la possibilità di riabilitare una persona che non ha avuto alcun rispetto verso altre vite. Dobbiamo realmente credere nella rieducazione di una persona, di credere fermamente che ci possa essere un cambiamento nella loro vita,  che ci sono altre alternative alla vita di prima e che possano realmente cambiare. 
Bisogna comprendere la fatalità della vita, di quanto l’ambiente determini la mancanza di scelte diverse e di come puoi restarne intrappolato come il nostro protagonista Salvatore. Già, nascere da una parte della città ti apre la via ad un destino prestabilito, a cui è difficile ribellarsi e se non hai nessuno che possa farti vedere che ci sono altri modi di vivere, rimani intrappolato in quel giro senza nessuna possibilità di cambiamento perché non conosci l’esistenza di altri modi per vivere.
Un libro di riflessione,  sulla  giustizia e le pene inflitte, ma anche di rieducazione dell’imputato, un romanzo che vuole farci riflettere sulla possibilità di non comminare l’ergastolo, ma di infliggere soltanto una pena massima di 30 anni. 
Non  è facile accettare questo visione, sarebbe una sorta di perdono a largo raggio, non solo dal punto di vista cattolico, ma totale, una riflessione che vi invito a leggere con la mente aperta, ma anche con il cuore.
 Un libro che scuote l'anima, coinvolgente e riflessivo.
SCHEDA LIBRO
AUTORE - Elvio Fassone
TITOLO - Fine pena. ora
CASA EDITRICE - Sellerio
PAGINE - 210
SINOSSI
Una corrispondenza durata 26 anni tra un ergastolano e il suo giudice. Nemmeno tra due amanti, ammette l'autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. Questo non è un romanzo di invenzione, ma una storia vera. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all'ergastolo Salvatore, uno dei capi a dispetto dei suoi 28 anni, con il quale il presidente della Corte d'Assise ha stabilito un rapporto di reciproco rispetto e quasi - la parola non sembri inappropriata - di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d'impulso e gli manda un libro. Ripensa a quei due anni, risente la voce di Salvatore che gli ricorda, "se io nascevo dove è nato suo figlio adesso era lui nella gabbia". Non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. La corrispondenza continua, con cadenza regolare caro presidente, caro Salvatore. Il giudice nel frattempo è stato eletto al CSM, è diventato senatore, è andato in pensione...

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Lettrice accanita, scrittrice irregolare, gestisco un blog, una pagina ed un gruppo sempre con lo stesso nome: La Lettrice di carta. Amo i personaggi femminili e maschili tormentati, quelli che hanno un passato duro da raccontare, ma da buona lettrice non disdegno altri generi letterari. Non credo che possa esserci un libro brutto, ogni romanzo troverà sempre il suo lettore a cui la storia piacerà. Il mio romanzo preferito: Storia di una capinera di G. Verga.