La Rivoluzione - Le Chajim
di
Roberto Fiorentini
Sinossi
LA RIVOLUZIONE – sequel di Le Chajim alla vita (Graphofeel) è il nuovo romanzo storico di Roberto Fiorentini. Ambientato nella Roma di fine Settecento vede ancora come protagonista l’ ebreo livornese Avraham Mocada. Se nel primo libro era un ventenne ingenuo ora lo ritroviamo fervente giacobino inviato dalla Francia a Roma per svolgere una missione segreta. Deve scatenare una rivolta che obblighi Pio VI a lasciare la città perché si possa proclamare una Repubblica romana sotto il controllo del Direttorio. Avraham s'impegnerà a fondo trovandosi coinvolto in avventure ambigue e pericolose che vedono come protagonisti ufficiali francesi, ebrei del ghetto e donne dal fascino spregiudicato. Personaggi storici e altri di pura invenzione agiscono sullo sfondo della capitale in cui già era tragicamente emersa la questione ebraica, nel contesto di un radicale cambiamento dei costumi e della società.
“...Bisogna avere il coraggio di ammetterlo, non abbiamo capito la rivoluzione di cui siamo testimoni: a lungo l’abbiamo presa per un avvenimento. Sbagliavamo: essa è un’epoca... Sventurate le generazioni che assistono alle epoche del mondo”.Joseph De Maistre. Lettera alla marchesa di Costa. 1794
Autore: Roberto Fiorentini
Titolo: La Rivoluzione - Le Chajim Vol. 2
Editore: Graphofeel Edizioni
Pagine: 418
Pagine: 418
Roberto Fiorentini, romano, già docente di storia e filosofia nei licei, si è dedicato alla storia dell'antisemitismo, della Shoah e di Israele. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi di storia, tra cui L'economia del mondo antico: la villa romana (Roma 2001) e ha curato la consulenza storica del volume di Guido Crapanzano Amadeo Peter Giannini Il banchiere che investiva nel futuro (Graphofeel 2017). Nel 2014 ha pubblicato, sempre per Graphofeel, il suo primo romanzo: Le Chajim. Alla vita.
Breve estratto CAPITOLO I
ESTATE DEL 1797La Storia non perdona gli sconfitti, nessuno si sarebbe ricordato di loro. Avevano perso. Il nuovo secolo che era alle porte non avrebbe più conosciuto rivoluzioni, la sorte degli oppressi era ormai segnata per sempre.«Cittadino Mocada in piedi! Hai ascoltato le accuse? Non hai nulla da dire?»Avraham ebbe un sussulto e uscì da quella specie di letargo in cui era caduto dall’inizio dell’udienza. Nella sala addobbata di vessilli e insegne cadde il silenzio, si alzò con lentezza dalla sedia e chiese con aria persa:«Su cosa, cittadino Presidente?»«Sui capi d’imputazione, è ovvio!», lo redarguì il giudice, irritato dal suo comportamento e dal gran caldo.«No, non ho nulla da dire».L’avvocato che lo affiancava, alzandosi in piedi, soggiunse precipitosamente:«Il cittadino Mocada si dichiara colpevole di tutti i reati contestati e si appella alla clemenza della corte».«Bene!», disse soddisfatto il magistrato, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Questo ci semplifica il lavoro».A quelle parole il livornese alzò lo sguardo, fino a quel momento assente, e fissò la bandiera tricolore alle spalle dei giudici: una volta quel simbolo lo emozionava, gli provocava i brividi. Ora più nulla.«Che cosa fate ancora in piedi? Sedetevi cittadino!», intimò il magistrato dell’Alta Corte di Vendôme, che nel frattempo aveva iniziato a scrivere.«Giù!», disse a voce bassa l’avvocato tirandolo per la giacca. Avraham si sedette e abbassò lo sguardo, mentre una guardia apriva le finestre per far circolare un po’ d’aria e rinfrescare la sala.In cuor suo aveva deciso che se non fosse finito in mano al boia, quella sarebbe stata l’ultima volta che si faceva irretire dalle sirene della rivoluzione. Possibile che il Novantaquattro non gli avesse insegnato nulla? Arrestato, più volte picchiato e infine, un giorno di Termidoro[1] che neanche ricordava, era stato condannato a morte; sfuggito per miracolo alla ghigliottina, per più di un anno aveva percorso la Francia in lungo e in largo alla ricerca di un posto sicuro in cui nascondersi, sempre con la polizia del Direttorio[2] alle calcagna. Altre piccole scaramucce con il potere gli avevano dato la sensazione di contare ancora qualcosa; in realtà solo la fame, la paura e i rimpianti erano stati i suoi compagni di vita. Poi era bastato incontrare un amico, un fratello con cui aveva condiviso gli anni di Parigi, che gli proponesse una nuova avventura, gli prospettasse un’altra possibilità di cambiare il mondo ed ecco che, come un qualsiasi novellino, ci si era buttato a capofitto. I risultati? Neanche a dirlo, gli stessi di due anni prima: l’arresto, mesi di carcere e il processo. Se questa volta ne usciva vivo, sarebbe partito lasciando per sempre la Francia. Aveva deciso!«Cittadino Avraham Mocada, visti i capi d’imputazione, ravvisando la tua piena responsabilità dei fatti contestati, considerando la tua ammissione di colpevolezza e l’attenuante del ruolo secondario svolto nella cospirazione, oggi, quarto giorno della seconda decade di Messidoro dell’anno quinto[3] della Rivoluzione, questo Tribunale ti condanna alla pena di vent’anni di carcere duro».Ecco la sentenza. Sarebbe vissuto quindi. Non era più certo che fosse un bene: vent’anni di prigione erano un’eternità, altro che andarsene dalla Francia!Due guardie lo presero per le braccia e, quasi sollevandolo, lo spinsero verso la porta laterale che conduceva alle celle mentre le poche persone presenti all’udienza – chi erano? Perché erano lì? Se l’era chiesto in un momento di lucidità cercando qualche faccia conosciuta – uscivano lentamente dal portone principale che dava nel grande atrio d’ingresso al tribunale. Un uomo in particolare aveva attirato la sua attenzione: era seduto da solo nell’ultima fila delle sedie riservate al pubblico, non aveva fatto altro che prendere appunti durante il processo e quando i loro sguardi si erano incrociati, gli aveva rivolto uno strano sorriso. Era vestito con un soprabito scuro, un panciotto marrone e pantaloni neri; sulla sedia accanto a lui erano poggiati un alto cilindro e un magnifico bastone da passeggio che, ne era certo, nascondeva al suo interno una pregiata anima d’acciaio di Sheffield, affilata e micidiale. Insomma, un modo di vestire che Avraham conosceva bene: per ben due anni era stato il suo stesso abbigliamento.«Contento?», gli disse sottovoce una delle guardie che lo sospingeva. «Per un po’ avrai ancora la testa sul collo, ma non credo per molto… se ti ho capito bene sei uno che per natura i guai non li scansa, ne cerca sempre di nuovi!»Gli rivolse un sorriso triste; forse quella semplice guardia lo aveva capito meglio di tanti giudici e compagni di lotta. Ma l’Avraham alla ricerca di avventure apparteneva al passato, ora desiderava solo starsene in disparte da tutto e da tutti. Pensò ancora ai vent’anni da trascorrere in galera e si sentì mancare il respiro e le gambe: una stanchezza infinita lo assalì e dovette appoggiarsi alle braccia delle guardie che lo sostennero. Percorsero il lungo corridoio che nei giorni del processo aveva attraversato più volte; giunti davanti alla cella gli tolsero i ferri e, dopo averlo spinto all’interno, chiusero la pesante porta con violenza. Udì le quattro mandate, il tempo per accasciarsi supino sul pagliericcio e chiudere gli occhi stremato. Avrebbe voluto dormire, ma non vi riuscì; si ripresentarono ancora una volta i pensieri e le domande che gli avevano occupato la mente durante la prigionia, prima del processo: cosa sarà successo agli altri? Dopo l’arresto non aveva incontrato nessuno e durante gli interrogatori i poliziotti non gli avevano chiesto quasi nulla: forse erano già in possesso di tutte le informazioni sui congiurati e non avevano voglia di perdere tempo. Non gli chiesero neanche di confessare quale fosse stato il suo ruolo nell’organizzazione: il suo nome compariva negli elenchi della Società degli Eguali e ciò bastava.Già, la Società degli Eguali, quanto gli era piaciuto quel nome! Aveva aderito senza neanche leggere tutto il programma, gli erano bastate poche frasi che portava scolpite nella memoria:“La proprietà è la sorgente più importante di tutti i mali che pesano sulla società… Il sole brilla su tutti, e la terra non è di nessuno. Orsù, dunque amici miei, turbate, sconvolgete, buttate all’aria, questa società che non è per voi. Prendete, dove che sia, tutto ciò che vi abbisogna. Il superfluo appartiene di diritto a chi non possiede nulla. Sgozzate senza pietà i tiranni, i patrizi, il milione dorato, tutti gli esseri immorali che dovessero opporsi alla nostra felicità comune! La Repubblica degli Eguali, il grande asilo aperto a tutti gli esseri umani. Sono giunti i giorni della restituzione generale. Famiglie gementi, venite a sedervi alla tavola comune eretta dalla natura per tutti i suoi figli”.
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