Ambientato nella Roma di fine Settecento vede ancora come protagonista l’ ebreo livornese Avraham Mocada. Se nel primo libro era un ventenne ingenuo ora lo ritroviamo fervente giacobino inviato dalla Francia a Roma per svolgere una missione segreta.
Deve scatenare una rivolta che obblighi Pio VI a lasciare la città perché si possa proclamare una Repubblica romana sotto il controllo del Direttorio.
Avraham s'impegnerà a fondo trovandosi coinvolto in avventure ambigue e pericolose che vedono come protagonisti ufficiali francesi, ebrei del ghetto e donne dal fascino spregiudicato.
Personaggi storici e altri di pura invenzione agiscono sullo sfondo della capitale in cui già era tragicamente emersa la questione ebraica, nel contesto di un radicale cambiamento dei costumi e della società.
Breve estratto:
CAPITOLO
I
ESTATE
DEL 1797
La
Storia non perdona gli sconfitti, nessuno si sarebbe ricordato di
loro. Avevano perso. Il nuovo secolo che era alle porte non avrebbe
più conosciuto rivoluzioni, la sorte degli oppressi era ormai
segnata per sempre.
«Cittadino
Mocada in piedi! Hai ascoltato le accuse? Non hai nulla da dire?»
Avraham
ebbe un sussulto e uscì da quella specie di letargo in cui era
caduto dall’inizio dell’udienza. Nella sala addobbata di vessilli
e insegne cadde il silenzio, si alzò con lentezza dalla sedia e
chiese con aria persa:
«Su
cosa, cittadino Presidente?»
«Sui
capi d’imputazione, è ovvio!», lo redarguì il giudice, irritato
dal suo comportamento e dal gran caldo.
«No,
non ho nulla da dire».
L’avvocato
che lo affiancava, alzandosi in piedi, soggiunse precipitosamente:
«Il
cittadino Mocada si dichiara colpevole di tutti i reati contestati e
si appella alla clemenza della corte».
«Bene!»,
disse soddisfatto il magistrato, asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Questo ci semplifica il lavoro».
A
quelle parole il livornese alzò lo sguardo, fino a quel momento
assente, e fissò la bandiera tricolore alle spalle dei giudici: una
volta quel simbolo lo emozionava, gli provocava i brividi. Ora più
nulla.
«Che
cosa fate ancora in piedi? Sedetevi cittadino!», intimò il
magistrato dell’Alta Corte di Vendôme, che nel frattempo aveva
iniziato a scrivere.
«Giù!»,
disse a voce bassa l’avvocato tirandolo per la giacca. Avraham si
sedette e abbassò lo sguardo, mentre una guardia apriva le finestre
per far circolare un po’ d’aria e rinfrescare la sala.
In
cuor suo aveva deciso che se non fosse finito in mano al boia, quella
sarebbe stata l’ultima volta che si faceva irretire dalle sirene
della rivoluzione. Possibile che il Novantaquattro non gli avesse
insegnato nulla? Arrestato, più volte picchiato e infine, un giorno
di Termidoro[1] che neanche ricordava, era stato condannato a morte;
sfuggito per miracolo alla ghigliottina, per più di un anno aveva
percorso la Francia in lungo e in largo alla ricerca di un posto
sicuro in cui nascondersi, sempre con la polizia del Direttorio[2]
alle calcagna. Altre piccole scaramucce con il potere gli avevano
dato la sensazione di contare ancora qualcosa; in realtà solo la
fame, la paura e i rimpianti erano stati i suoi compagni di vita. Poi
era bastato incontrare un amico, un fratello con cui aveva condiviso
gli anni di Parigi, che gli proponesse una nuova avventura, gli
prospettasse un’altra possibilità di cambiare il mondo ed ecco
che, come un qualsiasi novellino, ci si era buttato a capofitto. I
risultati? Neanche a dirlo, gli stessi di due anni prima: l’arresto,
mesi di carcere e il processo. Se questa volta ne usciva vivo,
sarebbe partito lasciando per sempre la Francia. Aveva deciso!
«Cittadino
Avraham Mocada, visti i capi d’imputazione, ravvisando la tua piena
responsabilità dei fatti contestati, considerando la tua ammissione
di colpevolezza e l’attenuante del ruolo secondario svolto nella
cospirazione, oggi, quarto giorno della seconda decade di Messidoro
dell’anno quinto[3] della Rivoluzione, questo Tribunale ti condanna
alla pena di vent’anni di carcere duro».
Ecco
la sentenza. Sarebbe vissuto quindi. Non era più certo che fosse un
bene: vent’anni di prigione erano un’eternità, altro che
andarsene dalla Francia!
Due
guardie lo presero per le braccia e, quasi sollevandolo, lo spinsero
verso la porta laterale che conduceva alle celle mentre le poche
persone presenti all’udienza – chi erano? Perché erano lì? Se
l’era chiesto in un momento di lucidità cercando qualche faccia
conosciuta – uscivano lentamente dal portone principale che dava
nel grande atrio d’ingresso al tribunale. Un uomo in particolare
aveva attirato la sua attenzione: era seduto da solo nell’ultima
fila delle sedie riservate al pubblico, non aveva fatto altro che
prendere appunti durante il processo e quando i loro sguardi si erano
incrociati, gli aveva rivolto uno strano sorriso. Era vestito con un
soprabito scuro, un panciotto marrone e pantaloni neri; sulla sedia
accanto a lui erano poggiati un alto cilindro e un magnifico bastone
da passeggio che, ne era certo, nascondeva al suo interno una
pregiata anima d’acciaio di Sheffield, affilata e micidiale.
Insomma, un modo di vestire che Avraham conosceva bene: per ben due
anni era stato il suo stesso abbigliamento.
«Contento?»,
gli disse sottovoce una delle guardie che lo sospingeva. «Per un po’
avrai ancora la testa sul collo, ma non credo per molto… se ti ho
capito bene sei uno che per natura i guai non li scansa, ne cerca
sempre di nuovi!»
Gli
rivolse un sorriso triste; forse quella semplice guardia lo aveva
capito meglio di tanti giudici e compagni di lotta. Ma l’Avraham
alla ricerca di avventure apparteneva al passato, ora desiderava solo
starsene in disparte da tutto e da tutti. Pensò ancora ai vent’anni
da trascorrere in galera e si sentì mancare il respiro e le gambe:
una stanchezza infinita lo assalì e dovette appoggiarsi alle braccia
delle guardie che lo sostennero. Percorsero il lungo corridoio che
nei giorni del processo aveva attraversato più volte; giunti davanti
alla cella gli tolsero i ferri e, dopo averlo spinto all’interno,
chiusero la pesante porta con violenza. Udì le quattro mandate, il
tempo per accasciarsi supino sul pagliericcio e chiudere gli occhi
stremato. Avrebbe voluto dormire, ma non vi riuscì; si
ripresentarono ancora una volta i pensieri e le domande che gli
avevano occupato la mente durante la prigionia, prima del processo:
cosa sarà successo agli altri? Dopo l’arresto non aveva incontrato
nessuno e durante gli interrogatori i poliziotti non gli avevano
chiesto quasi nulla: forse erano già in possesso di tutte le
informazioni sui congiurati e non avevano voglia di perdere tempo.
Non gli chiesero neanche di confessare quale fosse stato il suo ruolo
nell’organizzazione: il suo nome compariva negli elenchi della
Società degli Eguali e ciò bastava.
Già,
la Società degli Eguali, quanto gli era piaciuto quel nome! Aveva
aderito senza neanche leggere tutto il programma, gli erano bastate
poche frasi che portava scolpite nella memoria:
“La
proprietà è la sorgente più importante di tutti i mali che pesano
sulla società… Il sole brilla su tutti, e la terra non è di
nessuno. Orsù, dunque amici miei, turbate, sconvolgete, buttate
all’aria, questa società che non è per voi. Prendete, dove che
sia, tutto ciò che vi abbisogna. Il superfluo appartiene di diritto
a chi non possiede nulla. Sgozzate senza pietà i tiranni, i patrizi,
il milione dorato, tutti gli esseri immorali che dovessero opporsi
alla nostra felicità comune! La Repubblica degli Eguali, il grande
asilo aperto a tutti gli esseri umani. Sono giunti i giorni della
restituzione generale. Famiglie gementi, venite a sedervi alla tavola
comune eretta dalla natura per tutti i suoi figli”.